Arrivederci Pelé: ti pensiamo giocare lassù contro Diego Maradona


“Per te che cerchi di imitare Pelé / Per te che sogni e non capisci perché”, cantava Claudio Baglioni negli anni Settanta. Sarebbe comodo dire che ad imitare Pelé ci hanno provato in molti; ma in realtà non è vero. Pacificamente etichettato il più grande giocatore di tutti i tempi sino all’arrivo di Maradona, O Rey era infatti dotato di una trascendenza dell’essere assai maggiore di quella del Pibe de Oro, per un misto di ragioni – diciamo così – oggettive e soggettive.

Si chiamava, al secolo, Edson Arantes do Nascimento. Chilometrico nome alla brasiliana che i ragazzini sciorinavano per intero, prima degli Smartphone e di Wikipedia, per sfoggiare la propria cultura calcistica. Per la cronaca “Edson” era l’errata trascrizione di “Edison”, nome scelto per celebrare il fatto che a Tres Carações – la città dove Pelé era nato il 23 ottobre 1940 – fosse da poco arrivata la luce elettrica… Curiosità storica che ci illumina – scusate il troppo facile gioco di parole – su che cosa potesse significare un simile mito in epoche tecnologicamente (e mediaticamente) così involute…

A ciò, come visto, contribuiva la chilometricità del suo nome autentico, intrecciandosi con l’opposta, provvidenzialissima orecchiabilità del suo nome d’arte. Oggi la si potrebbe credere un’operazione studiata a tavolino; a quei tempi, un nome destinato a divenire immortale poteva nascere dalla storpiatura di Bilé, il portiere della squadretta di calcio per cui Il giovanissimo Edson tifava da bambino, sognando a quel tempo di diventare estremo difensore. Forse per vendicare il fatto di non esserlo mai diventato avrebbe dato così tanti dispiaceri ai propri colleghi mancati…

Quanti dispiaceri? Impossibile saperlo. Altro elemento di fascino un po’ magico della figura, causato da metodi e fonti di statistica che non erano certo quelli di oggi a suon di chilometri percorsi da un singolo atleta in una singola partita di calcio. Una volta, quando i testi erano pochi e forzatamente sacri, si diceva 1281 gol in 1361 partite; ma si diceva anche che molti di tali gol erano stati segnati in partite dall’ufficialità quantomeno dubbia, tipo Brasile contro una squadra di club… Ciò fa sì che non sia univocamente noto neppure il numero di gol segnati da O Rey in nazionale: un tempo si diceva 96; oggi – di solito – 77. Su un’altra statistica invece concordano tutti: della sua nazionale, Pelé non volle mai essere capitano pur avendola portata per tre volte (o meglio due e mezza, come tra poco vedremo) sul gradino più alto del podio mondiale.

La prima volta che Pelé divenne campione del mondo, non aveva ancora diciotto anni. Nel 1958, l’arrivo dal Sudamerica per giocare un Mondiale in Europa faceva ancora fatica e notizia, e le consuete difficoltà di acclimatamento erano destinate ad amplificarsi in una Svezia freddina che si sarebbe però scaldata alle gesta di quel miracolo di precocità calcistica, il quale proprio contro la Nazionale di casa, in finale, segnerà uno dei gol più belli della storia del calcio. Il bis fu in Cile, nel 1962; ma si tratta di quel già accennato “mezzo titolo” di un Pelé che esce subito per la fortuna di Amarildo, che tanta gloria troverà poi in Italia. Quattro anni dopo, in Inghilterra, O Rey cade invece vittima delle rudezze dei difensori europei, insieme ad un Brasile che esce al primo turno. Poi, il 1970.

Jairzinho, Gerson, Tostão, Pelé, Rivelino. Quei cinque fenomeni erano tutti numeri 10, nelle rispettive squadre di club: un caso mai visto – né prima né dopo – nella storia del calcio. Il sacro numero troneggiava ovviamente sulle spalle di Pelé, che nella finale contro l’Italia – su azione orchestrata da altri due di quei cinque – volò in cielo per colpire e segnare di testa come oggi fa (o faceva…..?) Cristiano Ronaldo, e come allora non si credeva atleticamente possibile. Ma di quella finale ci piace ricordare, più ancora, il quarto gol dei Carioca. Dopo azione prolungata la palla perviene allo stesso Pelé, che fingendo di passeggiare per il prato dell’Azteca la smista lemme lemme sulla destra dove solo lui sapeva che poteva arrivare Carlos Alberto a sparare una bomba imparabile per uno sconsolato Albertosi (“E sono quattro…”, commentò un altrettanto sconsolato Nando Martellini). Magia di intuito e visione di gioco insiti nel DNA, a nostro avviso ancor più divina di tanti e tanti gol.

Pelé e Diego Armando Maradona erano nati a vent’anni e sette giorni di distanza. Ciò nell’ottobre del 2020 ci costrinse a scrivere a distanza di una settimana l’articolo per gli ottant’anni dell’uno e quello per i sessant’anni dell’altro facendo bene attenzione ad evitare doppioni… Senonché, Maradona pensò bene di morire altri ventisei giorni dopo, prendendo i giornalisti in contropiede come aveva fatto con tanti difensori. Lo ha fatto anche Pelé, alla sua maniera: astenendosi dal passare a miglior vita durante i Mondiali del Qatar, quando i media in blocco hanno cercato in tutti i modi di anticiparne e quasi suggerirne un decesso che speravano di accoppiare, in titoli e commenti, con la vittoria del Brasile, a sua volta poi notoriamente non verificatasi. Squali dello scoop mediatico dunque a bocca asciutta, in nome di quell’istintiva antimediaticità del personaggio la quale, insieme a un calcio molto meno business di oggi, fece sì che Pelé non sia mai venuto a giocare in un club europeo.

Tale circostanza, che oggi sarebbe puramente e semplicemente surreale, è anche l’unico vero limite, l’unico vero argine all’applicazione pura e semplice del dogma del mito assoluto e incondizionato. Mancò infatti la probatio aquae et ignis di gesta da confermarsi nei campionati più impegnativi e al costante cospetto dei singoli avversari maggiormente qualificati. Mancava insomma un ulteriore miracolo per una causa di santità che pare tuttavia, ora che Pelé è salito al cielo, risolta con esito largamente positivo. Resta per contro cristallizzata l’ultima delle ragioni oggettive annunciate in apertura per le quali il mito di Pelé ha una caratteristica connotazione trascendente, restando per l’appunto quasi totalmente confinato a immagini sbiadite e pasticciate di mondi e campionati troppo lontani – per troppi versi – dall’Europa.

L’ultimo grande dubbio che attanaglierà gli addetti ai lavori non troverà invece mai soluzione: Pelé o Maradona…? I vent’anni di anagrafe che separano i due tracciano un solco tra due ere calcistiche troppo diverse in tema di velocità e – soprattutto – di pressing. Quest’ultimo non esisteva affatto a tempi di un O Rey che, come abbiamo raccontato, passeggiava tranquillo tra i difensori azzurri prima di appoggiare alla cieca per Carlos Alberto (pensate invece alla marcatura di Gentile su Maradona nel 1982…). Perdipiù, quei vent’anni di differenza erano a quell’epoca troppi – le carriere terminavano molto molto prima – per consentire ai due di incrociarsi almeno una volta su un terreno di gioco. Si sfideranno d’ora in poi in un meraviglioso eterno derby celeste, che ci piace sognare con la telecronaca di un Nando Martellini sempre in forma.

Roberto Codebò

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