
Pochi giorni fa, commentando il decennale dell’incendio alla Thyssenkrupp, ricordavo come il relativo processo abbia segnato un’epoca della giustizia torinese marciando in parallelo con il maxiprocesso Eternit. Su questo secondo fronte, tale epoca era passata per i consueti due gradi di giudizio, conoscendo il proprio clamoroso epilogo quando, in Cassazione, era stata dichiarata la prescrizione dei reati per i quali si procedeva.
Sul punto, ricordiamo che di amianto spesso si muore decenni dopo l’esposizione alle letali polveri del materiale. Indi, le morti di cui si trattava erano in molti casi recentissime (numerose parti civili decedettero addirittura durante il dibattimento di primo grado); ma in quel processo si perseguivano i reati di disastro nonché relativi alla sicurezza sul lavoro: fatti insomma che risalivano, per l’appunto, a decenni fa. Non si procedeva invece per omicidio, secondo una scelta le cui ragioni forse non saranno mai del tutto chiarite.
Un tarlo che il maxiprocesso Eternit si portava dietro da sempre, e che era stato sepolto sotto la risonanza mediatica e l’enorme complessità del dibattimento, figlia anche e soprattutto del procedersi – per l’appunto – per fatti così antichi. Proprio come un luccicante palazzo dalle fondamenta incerte, destinato a crollare, in questo caso, al severo vaglio della Suprema Corte.
Poiché il tarlo era in realtà noto da tempo, la procura torinese era pronta al proprio bis. “Eternit-bis” avrebbe per l’appunto dovuto chiamarsi il secondo maxiprocesso. Poiché di amianto – per le ragioni già ricordate – si continua a morire anche venticinque anni dopo la legge che ne ha vietato lavorazione e uso, la… “materia prima” per un nuovo dibattimento non mancava di certo: altri 258 casi, e stavolta si sarebbe proceduto per omicidio, dunque sicuramente senza alcun problema di prescrizione.
Senonché, ecco un altro di quegli accidenti del diritto che espletano il loro peso quando meno ce lo si aspetta. La Procura aveva chiesto l’imputazione a titolo di omicidio doloso, secondo una tesi che si rifà a quella sostenuta con successo nel primo grado del processo Thyssen a carico di Harald Espenhahn. Nel caso di Espenhahn, tale tesi era stata poi rigettata in appello; in questo caso, non è stata neppure accettata dal Giudice per l’Udienza Preliminare, il quale ha ricondotto tutto al più usuale omicidio colposo.
Solitamente, tale declassamento del titolo di reato espleta i propri effetti solo in relazione al quantum della pena. Stavolta, l’impatto devastante è stato invece sul piano della competenza per territorio. Se non c’è dolo, non c’è neppure reato continuato: quelle “più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso” previste dall’art. 81, secondo comma del Codice Penale, che possono attrarre i relativi fatti in un medesimo procedimento indipendentemente dal luogo in cui tali fatti si sono svolti.
Era già stato così difficile l’altra volta, per la Procura, difendere la competenza di Torino per fatti prevalentemente verificatisi a Casale Monferrato. Un fantasma, quello dello spostamento e/o spacchettamento del processo, che si è ripresentato in maniera stavolta ineluttabile, infierendo sull’enorme complessità di fatti sparpagliati che presentano una radice comune ormai così antica.
Alla fine, in fondo, il problema è sempre lo stesso. La società Eternit fallì nel 1986; molti dei responsabili di questa enorme tragedia silenziosa sono morti da tempo (il barone de Marchienne, dal canto suo, morì pochi giorni prima della sentenza di appello); molti lavoratori, e molti loro parenti, se ne sono andati prima di poter veder giustizia. Ma meglio tardi che mai, direbbe qualcuno; alla “prima” del maxiprocesso Eternit accorsero da mezzo mondo, perché era la prima volta che si faceva qualcosa del genere. Tra prescrizioni e spacchettamenti, tutto ciò è indubbiamente servito – e servirà – a molto più di qualcosa.
Roberto Codebò
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