Non andrà in carcere la madre italiana, oggi 42enne, che nel dicembre del 2004 abbandonò il figlio appena partorito in un bidet, provocandone la morte dopo settimane di coma. I fatti avvennero a Torino. La donna, già madre di due bimbi piccoli e da tempo separata dal marito, aveva tenuto nascosta a tutti la gravidanza. Partorì nell’appartamento della madre, in zona Barca, e tentò di liberarsi del neonato annegandolo nel bidet avvolto in sacchetti di plastica. Entrambi furono ricoverati in ospedale: il piccolo in gravissime condizioni e la madre per un’emorragia. Alla morte del piccolo la donna venne condannata a sei anni e otto mesi di carcere con l’accusa di omicidio volontario. In appello la pena è stata ridotta a sei anni e l’accusa derubricata a infanticidio. Grazie all’indulto e ai due anni già scontati agli arresti domiciliari non andrà in carcere.
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È stata condannata per omicidio la donna di 36 anni che, nel dicembre del 2004, a Torino, partorì in casa di nascosto, il terzo figlio, che poi infilò in un sacchetto di plastica e gettò nel bidet.
Il bimbo morì diverse settimane dopo per le lesioni, e oggi la donna è stata condannata a sei anni e otto mesi di reclusione per omicidio.
La trentaseienne, italiana, madre di altri due bambini di 10 e 14 anni, è stata riconosciuta dal gup Vincenzo Bevilacqua seminferma di mente. All’epoca era separata dal marito e abitava con la madre in un alloggio in zona Barca, alla periferia settentrionale della città: era stata la stessa madre, che al momento di rientrare in casa aveva visto la donna in preda a una forte emorragia, a chiamare il 118.
La polizia arrestò l’imputata, che dopo un periodo di detenzione domiciliare venne ospitata anche in una casa di cura; oggi è a piede libero.
«Viste le condizioni in cui è maturata questa tragedia – spiega l’avvocato Renzo Capelletto, che ha difeso l’imputata insieme al collega Massimo Oreglia – siamo convinti che non si tratti di un vero omicidio volontario, ma di un infanticidio (punito con una pena più bassa ). Faremo appello».
L’accusa in aula è stata sostenuta dal pm Livia Locci, del pool «fasce deboli» guidato dal procuratore Pietro Forno.
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