
Dedicato al mio amico Matteo, sosia di Federer nel viso nonché – in qualche momento magari raro ma molto intenso – anche sui campi da tennis.
Negli stessi giorni in cui il Regno Unito ha perso una regina, il mondo del tennis perde il proprio re. Fortunatamente, in questo caso la causa non è il decesso del sovrano, bensì la sua abdicazione al termine di una parabola (quasi) perfetta che ha pochi eguali tanto sul piano sportivo quanto – in generale – sul piano umano.
Ha già molto ben rilevato massimo Gramellini che campioni come Diego Armando Maradona o Mike Tyson, divini nelle rispettive discipline, abbondavano di lati oscuri; e che invece Roger Feder, nel titolo scelto da Gramellini stesso, è un raro caso di “genio e regolatezza”. Meritevole dunque più che mai di quel titolo regio honoris causa conquistato in grandissima parte proprio nel feudo tennistico della Regina Elisabetta (peraltro notoriamente poco affezionata al tennis), trionfando otto volte sul centrale di Wimbledon.
Crediamo tuttavia che l’aura regia del campione svizzero appena ritiratosi si spieghi anche e soprattutto in un’altra maniera. Non basterebbero infatti l’impeccabilità dei modi dentro e fuori dal campo, l’assoluta trasparenza di vita al punto da inimicargli i cacciatori di scoop e il tocco regale la racchetta alla mano, se quest’ultimo non apparisse figlio di una sorta di investitura divina. Si tratta, in altre parole, del c.d. “campione naturale”, che dà l’impressione di pescare i propri illuminati colpi non da un faticoso apprendimento e/o da una fanatica applicazione, bensì per l’appunto da una superiore inclinazione di natura.
Si tratta – è bene ricordarlo – di una caratteristica tutt’altro che frequente anche negli stessi supercampioni. Molti di essi offrono infatti la chiara impressione di raggiungere e di mantenere i supremi livelli attraverso la ricerca costante di un proprio miglioramento nella corsa, nella potenza, in un determinato colpo. Nulla di tutto ciò in capo a Roger Federer, il quale – senza ovviamente nulla togliere all’immane fatica comunque necessaria per scalare l’Olimpo del tennis, e rimanervi così a lungo in vetta – sempre ha potuto pescare le proprie vittorie dal cilindro di Madre Natura: chiara filiazione in terra da parte della Suprema Divinità tennistica, che attraverso Roger ha mostrato ai comuni mortali la propria perfezione.
In tal senso, Federer è ovviamente la continuazione altrettanto naturale di Stefan Edberg, prescelto tre lustri prima da quella medesima divinità senza però riuscire ancora ad esprimerla in maniera altrettanto adamantina. Doveroso dunque che il fuoriclasse svedese espiasse tale colpa nei confronti degli Dèi del tennis prendendo Roger sotto la propria ala protettrice non da subito, bensì (seguendo l’insolito canovaccio di un campionissimo allenato da molti manager, e non da uno solo, nel corso della propria carriera) a cavallo della piena maturità tecnica e agonistica dello svizzero: in quel momento magico e un po’ bizzarro della storia del tennis in cui Edberg allenò Federer, Becker allenò Djokovic e Lendl allenò Murray. Eleganza, Potenza, Costanza: le tre virtù teologali del tennis che continuavano se stesse ciascuna per conto proprio, e ciascuna contro le altre due rinnovando rivalità e duelli goduti dagli amanti del tennis un quarto di secolo prima.
Non ci fulminino ora le predette Divinità, se ci permettiamo di illuminare forse l’unico punto oscuro del fenomeno Roger Federer. Neppure lui, dall’alto della propria quasi perfezione sportiva ed umana, ha saputo sottrarsi alla tentazione di prolungare eccessivamente la propria carriera, facendo conseguire il proprio ritiro non a una scelta netta, bensì a considerazioni circa il proprio ultimo infortuno. Non sono così mancate occasioni in cui il Re è stato strapazzato sul campo da qualche suo indegno suddito, che a nipoti e pronipoti potrà così raccontare di aver battuto Roger Federer (impresa comunque – sottolineiamolo – sempre incredibilmente rimarchevole). Sarebbe stato più bello un ritiro alla Nikko Rosberg o alla Franz Beckenbauer (come allenatore); tuttavia – rovesciando per così dire il ragionamento – riteniamo che ciò sia probatio probata di quanto sia difficile rinunciare ad esprimere un Qualcosa per il quale – anche al netto della generosità di Madre Natura – si è lavorato così duro; e di quanto sia difficile non cedere all’umano timore del dopo.
Un dopo ovviamente confortato da un’enorme agiatezza economica certo non messa in pericolo da stupidi eccessi e frodi fiscali (il pensiero, qui, va purtroppo a Boris Becker); nonché da una stabilità affettiva e familiare che fa invidia anche ai comuni mortali; ma non per questo – purtroppo – immune dall’horror vacui il quale, come tutti sanno, di divino ha troppo poco. Giusto per ricordarci che la divinità tennistica di Roger Federer, per nostra fortuna, è e rimane di questa Terra.
Roberto Codebò
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