La Guerra del Golfo: trent’anni fa, il battesimo del Villaggio Globale


Erano stati in molti, nell’inverno 1989/90, a credere che nel mondo fosse scoppiata la pace. In novembre, la caduta del Muro di Berlino aveva messo il sigillo alla fine della Guerra Fredda; la riunificazione tedesca era ormai questione di mesi; in giro per il mondo, i regimi dittatoriali variamente satelliti di una delle due Grandi Potenze “aprivano al multipartitismo”, per usare un’espressione di cui il Calendario Atlante De Agostini faceva in continuazione “copia e incolla”, per usare un’espressione a quell’epoca non ancora sbarcata nella lingua di tutti i giorni.

Ma proprio dalla periferia del pianeta venne il segno che quell’illusione di pace – come del resto era tristemente realistico attendersi – non poteva durare a lungo. Il 2 agosto 1990, giunse la notizia dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Strano paradosso: due soli anni prima, la fine della lunga guerra Iran-Iraq aveva rappresentato un robusto esempio della distensione generale. Ma proprio dal sempre inquieto Medio Oriente giunsero notizie che con la pace avevano poco a che vedere, ma che furono l’immediata prova della fresca rivoluzione negli equilibri globali.

Per la prima volta da decenni, l’esplosione di una crisi politico-militare a livello locale non si tradusse in un confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Tutto diverso insomma dalla Corea, da Cuba, dal Vietnam e dall’Afghanistan, anche perché L’URSS avrebbe giusto cessato di esistere nel dicembre 1991 – non prima del golpe-farsa di quell’estate – ed era ormai temporaneamente defilata dallo scacchiere globale. Privati del gigante antagonista, gli USA raccolsero attorno a sé la più grande coalizione militare dal 1945 in poi: accanto al tradizionale alleato inglese, un’Arabia Saudita che fungeva anche da base logistica principale rompendo il fronte della solidarietà panaraba (sunnita) antioccidentale; ma, insieme ai vari membri della NATO e non solo, la presenza di contingenti polacchi, cecoslovacchi e ungheresi, segno che ormai le tradizionali logiche della Guerra Fredda non esistevano più. Della speciale partecipazione italiana, diremo più avanti…

Durante l’inverno 1990/91, mentre la coalizione andava schierandosi nel deserto, si tentavano varie soluzioni pacifiche alla crisi. E, soprattutto, andava rodandosi la potente macchina giornalistica che avrebbe dovuto gestire la prima guerra mediatica della storia. Nei primi giorni di gennaio, iniziò il lancio dei missili sulle postazioni irachene e per la prima volta nelle case arrivarono le immagini riprese dalle telecamere situate sul muso dei missili stessi, che si interrompevano poco prima dell’impatto. La CNN, nata una decina di anni prima, per la prima volta si fece conoscere su scala globale in un’epoca in cui i cellulari facevano le loro prime timidissime apparizioni, le antenne paraboliche erano raro privilegio e la parola «Internet» era ancora sconosciuta. Pietra miliare insomma di una globalizzazione che stava per diventare il Leitmotiv degli anni Novanta.

Capitolo a parte merita poi la gestione mediatica dell’evento a livello italiano. Per un curioso accidente storico, le notizie sulla Guerra del Golfo arrivavano in un’Italia in cui per la prima volta si cercava di rompere il monopolio della Rai in materia di informazione (si pensi che ai quei tempi le TV private non potevano neppure trasmettere in diretta…). Le reti berlusconiane colsero la palla al balzo, prima ancora però di aver correttamente compreso la differenza tra informazione e spettacolo. Risultato: Emilio Fede, che dal suo Studio Aperto seppe trasformare la guerra in una specie di grossa telenovela sentimentale che – come vedremo – troverà protagonisti di sicuro successo.

Dal canto suo, mamma RAI rispose a tono all’inedita sfida mediatica a livello nazionale. Mentre Christiane Amanpour diveniva eroina della CNN con i missili che esplodevano alle sue spalle, la stella di Lilli Gruber sorse sul deserto con tanto di carré ramato ad esaltare la caratteristica postura di tre quarti, con i capelli che sembravano agitarsi secondo le traiettorie degli Scud e dei Patriot (missili rispettivamente iracheni e americani). Intorno a Lilli, i vari Paolo di Gianantonio, Fabrizio Del Noce, Antonio Caprarica e Ennio Remondino, sparpagliati in giro per capitali arabe e basi militari – la Gruber di solito stava ad Amman – a comporre una serie di collegamenti col TG vagamente ispirata a Novantesimo Minuto. Un simile schieramento di colleghi misurava il conto alla rovescia verso l’attacco di terra, che iniziò nella notte tra il 16 e il 17 gennaio.

Più che di un attacco, si potrebbe parlare di una specie di passeggiata. Su circa 700.000 uomini della Coalizione, 658 morti molti dei quali vittima di fuoco amico. Le truppe irachene si arrendevano in massa in mezzo a un deserto che, contrariamente alla giungla, non offre terreno per guerriglia o resistenza a oltranza da parte di truppe numericamente e tecnologicamente inferiori. Certo, vi furono più di ventimila caduti sul fronte iracheno; ma, a fronte di un’evoluzione e di un esito ampiamente scontati, tanto non sarebbe bastato – almeno a livello italiano – a mantenere il circo mediatico messo su nelle settimane precedenti, se non ci si fossero messi Gianmarco Bellini e Maurizio Cocciolone.

Si trattava del pilota e del navigatore di uno degli otto Tornado che l’Italia aveva inviato come contributo alla Coalizione, nell’evidente tentativo di non impegnarsi troppo in tal senso. Durante una missione di bombardamento con condizioni meteorologiche avverse, Bellini e Cocciolone precipitarono e, per 47 giorni, divennero gli unici prigionieri di guerra italiani del conflitto. A posteriori, sappiamo che la loro fu forse una condotta valorosa: unici a proseguire sulla tempesta di sabbia mentre gli altri aerei si ritiravano. Ma, con Emilio Fede in agguato, Bellini e Cocciolone divennero proprio i già annunciati protagonisti di quella telenovela sentimentale con cui – come abbiamo già visto – le reti berlusconiane tentavano per la prima volta di far concorrenza alla RAI in materia di informazione. Quando arrivarono le immagini di Cocciolone che, stanco e emaciato, rispondeva alle domande dei carcerieri iracheni, a Emilio Fede sembrò di toccare il cielo con un dito…

Verso la fine di febbraio, era già tutto finito. Le forze alleate non solo avevano completato la liberazione del Kuwait, ma erano penetrate assai profondamente in territorio iracheno. Qui, intervenne uno dei più classici bivi della storia: gli americani decisero di non proseguire fino a Baghdad. Avrebbero cambiato idea dieci anni più tardi sull’onda dell’attacco alle Torri Gemelle, quando il presidente non era più George Bush ma… suo figlio. Nel frattempo, il mondo era cambiato: i TG Mediaset non erano più delle telenovele, «Internet» era diventata una parola sulla bocca di tutti, le paraboliche erano più diffuse delle lavatrici e forse anche i capelli di Lilli Gruber non erano più quelli di dieci anni prima. Nessuno però avrebbe potuto dimenticare quell’inedito circo mediatico, primissimo vagito di un neonato villaggio globale.

Roberto Codebò

Leave a Reply