Panafricanismo, panarabismo, rapporti con ex-madrepatria: memorie, osservazioni, speranze


SECONDA PARTE – Il panarabismo

Banale ma vero: quando si sente dire che un nostro conoscente è “in Africa”, non si immagina certo che egli si trovi sulle rive del Mediterraneo, o poco più a sud. Retaggio sicuramente del Mare Nostrum dei romani, ma anche di una contrapposizione tra Africa araba e Africa nera figlia della storia e della geografia, nonché ben inculcata nella mentalità dei diretti interessati. “Noi siamo arabi, loro sono africani”, dicono i marocchini parlando – ad esempio – dei senegalesi. 

Senza dunque nulla togliere al panafricanismo di cui alla puntata precedente, è ovvio come gli arabi non possano identificarsi pienamente con quello che non a caso viene chiamato il Continente Nero. Si tratta del resto – non dimentichiamolo – di immigrati, giunti dalla Penisola Arabica sull’onda della diffusione della novella coranica, a partire dunque dal secolo VII d.C. Se dunque il panafricanismo è suggerito dalla geografica fisica nonché – in questo caso – calcistica, il panarabismo è invece figlio della politica e della storia. Ma anche qui non mancano naturalmente robustissime crepe interne, in contrapposizione alla compattezza mostrata contro nemici comuni chiamati Israele o Stati Uniti d’America. Per comprendere ciò, sono necessarie talune considerazioni di carattere linguistico.

Sul punto, ricordiamo che l’arabo è lingua ufficiale in non meno di 27 Paesi del mondo, tutti su per giù territorialmente contigui dal Golfo Persico all’Oceano Atlantico. Sulla carta una lingua comune ad amplissimo spettro, fattore unificante delle istanze dei Paesi e delle masse arabe. Ma anche qui c’è il trucco, figlio della peculiare origine della lingua araba e del modo in cui essa è codificata ai giorni nostri.

Storicamente – sarà bene ricordarlo – le “lingue comuni” utilizzate a livello internazionale sono figlie non certo di scrittori e poeti, bensì di invasori e soldati, che le hanno esportate in una con le loro campagne di conquista. La koiné del Mediterraneo Orientale non era certo il greco di Platone e di Aristotele, bensì lo slang delle truppe di Alessandro Magno. Il latino che sta alla base delle lingue romanze non è la lingua di Cicerone e Cesare, bensì lo slang dei legionari. La lingua franca del Medioevo non era certo quella langue d’oc così rinomata da essere citata addirittura nella Divina Commedia da Dante (unica lingua diversa dalla sua, ovviamente a parte Pape satán, pape satán aleppe, che è notoriamente una supercazzola); si trattava, al contrario, dello slang dei Crociati. E anche noi, quando parliamo inglese, siamo molto più vicini alle canzoni di Elvis Presley che non all’arringa di Marco Antonio resa immortale da William Shakespeare.

Tutto diverso, quando dalle lingue di Dante e di Shakespeare si passa alla lingua di Maometto. La quale è tale non per modo dire come le altre due, bensì nel vero senso della parola. In altri termini il Corano non è scritto in arabo, bensì l’arabo è la lingua del Corano. Perché Muhamad con il suo testo sacro cristallizzò in magnifica prosa uno dei vari idiomi beduini parlati nella Penisola Arabica, e tale codificazione linguistica, dopo quattordici secoli, è ancora oggi considerata l’arabo classico, attualizzato il minimo indispensabile a creare il Modern Standard Arabic (MSA), lingua ufficiale delle Nazioni Unite.

In altre parole, l’arabo è l’unico caso di lingua comune che abbia origine non popolare e colloquiale, bensì colta e letteraria. Per gli arabofoni né arabo classico né MSA (del resto difficili da distinguere fra loro anche sul piano dottrinale), bensì semplicemente al-Fuṣḥā (الفصحى), ovvero “La [lingua] pura”. Che si studia a scuola ma non si parla in famiglia; che si ascolta in TV nei discorsi dei politici ma non nelle telenovelas; che, in altre parole, è appannaggio delle persone di cultura medio-alta, le quali sole possono intendersi correntemente fra di loro anche quando provengono da Paesi e aree differenti.

Per tutto il resto, l’arabo è una variegata temperie di parlate locali, differenti per l’appunto da Paese a Paese ma anche soltanto da città a oasi del deserto. «Non posso capire i marocchini», mi diceva anni fa la mia guida in Oman: perché, dalla Penisola Arabica che è culla della lingua del Corano, le parlate locali e nazionali “degradano” verso ovest proprio fino alle rive dell’Oceano Atlantico, con i marocchini destinati a recitare il ruolo dei ciprioti del mondo greco…. Di qui la definizione – poi divenuta anche nostra – di «maghrebini», laddove al-Maghrib (المغرب) non è altro che l’Occidente: «occidentali» insomma esattamente come noi europei, con una corrispondenza non solo di meridiani ma anche di (non) amorosi sensi…

Da tutto ciò deriva che, esattamente come il panafricanismo, anche il panarabismo è una bandiera da sventolare soprattutto verso l’esterno, sorvolando su differenze non solo – come visto – linguistiche: si pensi all’insanabile contrapposizione tra musulmani sunniti e musulmani sciiti, oppure – in chiave storica – alla solo momentanea alleanza in chiave antiisraeliana dell’Egitto filosovietico e della Giordania filoamericana in occasione della Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Sabato pomeriggio, subito dopo la storica vittoria sul Portogallo, un giocatore marocchino ha sventolato la bandiera marocchina e la bandiera qatariota, cucite fra di loro. Le relative popolazioni non si capiranno bene tra loro, ma sicuramente la purezza della meravigliosa lingua di Muhamad, in questi giorni, è un po’ più facile da comprendere per tutti gli arabi.

Roberto Codebò

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