Panafricanismo, panarabismo, rapporti con ex-madrepatria: memorie, osservazioni, speranze


Iniziamo con il presente articolo una trilogia di riflessioni suggerite dalle imprese marocchine in Qatar, riflessioni che per loro natura si spingono ben oltre il fatto strettamente calcistico.

PRIMA PARTE – Il panafricanismo

«D’accordissimo, d’accordissimo, d’accordissimo!», mi ha risposto ieri il mio amico pizzaiolo egiziano quando gli ho chiesto cosa pensasse dei titoli dei giornali, che celebrano “Una vittoria di tutta l’Africa”. La base insomma concorda con gli opinionisti su un tema tipicamente africano. Sarebbe del resto assai difficile immaginare latinoamericani che portino al collo un ciondolo avente la forma del loro Continente, per non parlare della possibilità di coniare un ciondolo che abbia la forma di un’Asia troppo vasta e frastagliata per tale scopo. Destino dell’unico continente che – complice forse la caratteristica forma compatta – è l’unico a presentarsi in forma unitaria in chiave esportazione. Peccato che, come tutti sanno o intuiscono, le cose stiano assai diversamente sul piano delle relazioni fra Paesi africani, nonché all’interno di essi.

Per capirlo, sarebbe sufficiente pensare a cosa mai accada nella famiglia del Mulino Bianco, subito dopo la fine del celebre spot. Facile immaginare, a quel punto, polemiche e insulti a non finire. Come sempre accade a chi si presenta unito e compatto verso terzi, di solito a meglio celare le terribili lacerazioni che si porta dentro.

Se è vero che né vicini di casa, né popoli confinanti hanno mai avuto tendenza a andare d’accordo, è anche vero che tale tendenza tocca il suo apice in un continente in cui i confini non hanno mai avuto nulla a che vedere con i rapporti di vicinato. Questi ultimi sono sempre stati vissuti e gestiti su base tribale, mentre i confini politici sono opera di potenze europee che spesso li tracciarono letteralmente sulla carta – come al Congresso di Berlino del 1878 -, senza ancora aver messo piede nei territori in questione.

Viste le premesse, si poteva prevedere che l’agognata stagione dell’indipendenza dei Paesi africani – iniziata nel 1956 e proseguita in maniera rapidissima – fosse caratterizzata da una rimappatura di tali linee così artificiose. Ma ciò avvenne in casi più unici che rari (quali la fusione con la Nigeria di una parte del Camerun settentrionale ed anglofono): un po’ perché l’influsso delle ex madrepatrie in realtà non si esaurì affatto; un altro po’ perché a tali confini non poteva esistere una reale alternativa. Mi raccontavano anni fa nello Zambia che ivi la lingua ufficiale è l’inglese non tanto e non solo per retaggio coloniale, ma anche e soprattutto per non dare priorità all’uno o all’altro gruppo etnico-linguistico. In altre parole per evitare – con quanto successo, non saprei – che il potere sia monopolizzato dal Mobutu e dal Mugabe di turno: esponenti di un singolo gruppo tribale, storicamente collusi con la potenza ex dominatrice, e determinati dunque a fare gli interessi propri nonché di Parigi, Londra o Bruxelles, massacrando le altre etnie del Paese ancor più brutalmente di quanto non facessero francesi, inglesi o belgi. Fino alle mostruosità del genocidio del Ruanda del 1994, il quale purtroppo non rappresenta che la punta di un iceberg che pare destinato a non sciogliersi mai.

A tale tarlo figlio dei dissidi interetnici, si sono sempre aggiunti naturalmente i conflitti di tipo – per così dire – più europeo. Conflitti vale a dire combattuti tra i Paesi così come sono stati tracciati in epoca coloniale. Si pensi alla guerra ugandese-tanzaniana; o all’annessione dell’Eritrea da parte dell’Etiopia; o ancora alle Guerre nei territori tra Libia e Ciad e nell’alto Nilo, al confine tra Africa araba e Africa nera dove molto pesano anche le contrapposizioni religiose. Il tutto aggravato dalla versione africana della Guerra Fredda, vale a dire – a partire dalla crisi di Suez del 1956 – dalla progressiva conversione dell’Africa da terreno della contrapposizione tra inglesi e francesi, a terreno della nuova contrapposizione globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica: con conseguente introduzione del modello marxista-leninista in Paesi di cultura e tradizione ad esso completamente aliene, e relativa opposizione del mondo occidentale in nome delle rispettive sfere d’influenza e dell’accaparramento selvaggio di oro, avorio, uranio, petrolio e diamanti.

L’innesto di tale modello geopolitico moderno sul tradizionale modello tribale non poteva che moltiplicare i mali dell’Africa: sanguinose e spesso pluridecennali guerre civili combattute in nome della contrapposizione ideologica “sposata” da questa o quella etnia locale, nel tentativo di prevalere sulle altre. Basti pensare alla Guerra del Biafra – conseguenza da un lato di confini politici che non rispettavano quelli etnografici, e dall’altro dalla sacra fames di petrolio -, nonché a quei Vietnam africani che rispondono al nome di Angola e Mozambico. Il tutto in nome di un’Africa che – come diceva Winston Ntshona nel film I quattro dell’oca selvaggia interpretando una sorta di edizione critica dei leader africani – è e resta “un immenso campo di battaglia”.

Conseguenza (solo apparentemente) paradossale di tutto ciò, il panafricanismo. Sarebbe difficile immaginare i brasiliani che tifano Argentina in semifinale, in quanto unica squadra sudamericana rimasta in lizza…. Al contrario, il National Congress marchiato Nelson Mandela non è South African, bensì puramente e semplicemente African. E, venendo al dato strettamente calcistico, quando in Sudafrica si disputarono i Mondiali del 2010, Shakira ballava Waka Waka cantando “…’cause this is Africa“, puramente e semplicemente anche stavolta… Ma il paradosso, come accennato, è soltanto apparente. L’unità esterna ed esteriore del Continente è tanto reclamizzata proprio perché in fondo… è l’unica possibile. E come tale ebbe del resto grandissimo successo come Leitmotiv dell’emancipazione dei neri d’America, trovando in essa una potentissima cassa di risonanza a livello mondiale.

Nella sigla iniziale de I quattro dell’oca selvaggia, i confini interni dell’Africa sono significativamente raffigurati come linee di filo spinato. Oggi tutti gli africani cantano e danzano a cavalcioni di quei confini, come a cavalcioni di un Muro di Berlino appena caduto, in nome delle incredibili imprese del Marocco. Sarebbe bellissimo se, da oggi in avanti, quel filo spinato pungesse un pochino di meno.

Roberto Codebò

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