Qualche doverosa riflessione al termine della 14^ edizione di Terra Madre Salone del Gusto a Parco Dora.
Seguo ed amo Slow Food dai tempi in cui si chiamava ancora Arcigola. L’energia di Carlo Petrini, la forza comunicativa Piero Sardo, il lavoro oscuro e prezioso di Silvio Barbero. Avevano qualche anno più di me e mi affascinavano.
Ricordo bene i lunghi preparativi che condussero Carlin a costruire la prima edizione nel 1996, lo scetticismo dei media e l’idea che si trattasse solo di uno sfizio di nicchia per ricchi e per gente disposta a spendere.
Poi iniziò ad arrivare pubblico da tutto il mondo, i migliori chef del pianeta si incontravano a Torino, si poteva degustare lo Château d’Yquem, il Pingus e il Vega Sicilia. Napa Valley e Borgogna s’incontravano al Lingotto, Ferran Adrià spiegava il segreto del suo successo, il principe Carlo d’Inghilterra discettava di gastronomia.
A quel tempo si chiamava soltanto Salone del Gusto. L’associazione di Bra andava a braccetto con il Gambero Rosso ed insieme editavano l’unica guida ai vini che davvero contasse qualcosa, da tutti conosciuta come quella dei Tre bicchieri.
Quel Salone non c’è più, è cambiato, è un’altra cosa.
È passato del tempo e sono mutati dei rapporti. Nel 2004 nasce Terra Madre, dal 2016 l’evento cambia intestazione, prendendo quella attuale. Diventa Terra Madre Salone del Gusto.
Arrivano contadini, pescatori, agricoltori, allevatori. I poveri del mondo, gli sfruttati nella catena della distribuzione, quelli ai margini dei grandi guadagni. Portano colori, sapori, sorrisi nuovi nelle case delle famiglie piemontesi che li ospitano. Trovano spazio e riconoscibilità all’Oval, si confrontano, prendono coscienza.
Si arriva all’edizione 2016, che si svolge in gran parte all’aperto, nel Parco del Valentino, ma coinvolge tutto il centro di Torino in un evento diffuso di altissimo livello.
Dopo cinque giorni di grande impegno ieri si è chiusa la 14^ edizione. I numeri parlano chiaro, 350 mila passaggi sono segno di un grande successo di pubblico.
«Per forza, era gratis» sostiene qualcuno. Ma la gratuità è un pregio, non un difetto. Nelle passate edizioni ho sentito troppi espositori lamentarsi che il pubblico comprava poco, perché il prezzo del biglietto era caro. Oggi, per fortuna, non è più così.
Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia, esulta: «Terra Madre è una festa popolare, la dimostrazione che il cibo buono, pulito e giusto è un elemento di gioia e un ponte di pace tra i popoli. Ma questa edizione riafferma con forza la consapevolezza che la produzione alimentare è anche uno straordinario strumento di contrasto alla crisi climatica e alle ineguaglianze sociali».
La rigenerazione invocata da Slow Food ha trovato spazio a Parco Dora, ma la location ha diviso.
Da un lato si plaude alla scelta di riqualificare una periferia, al riutilizzo di uno spazio che pochi conoscevano, alla possibilità di vivere nuovamente un evento outdoor.
Da un altro lato si afferma come sia molto più scomodo venirci. A piedi non se ne parla. Oggi molti si muovono in moto, in bici, in monopattino, ma è piuttosto complicato capire quali bus prendere e dove passano.
Così succede che, alla faccia del rispetto per l’ambiente, la maggior parte scelga l’auto. Per parcheggiare qui conta conoscere bene Torino. Puoi farcela gratis a poca distanza dall’ingresso principale, ma può capitarti di impazzire nel dedalo di strade chiuse per l’occasione senza alcun preavviso.
Il problema degli accessi ha investito anche i delegati di Terra Madre, gli ospiti e i giornalisti.
La zona accrediti inserita in una galleria commerciale esterna all’evento può essere una scelta per indirizzare chi arriva a Stazione Dora, ma è un autogol pesante.
Aldilà della discutibilità ideologica, genera disorientamento. Ho visto decine di persone che non avevano idea di dove andare, senza alcuna indicazione, né cartellonistica, a segnalare il luogo da raggiungere.
A evento cominciato non esistevano indicazioni sull’ubicazione della sala stampa, che si trovava in un anonimo corridoio di uffici al secondo piano di una palazzina della medesima galleria commerciale. Un luogo lontano dal cuore dell’evento, impraticabile, inutile e scomodo.
Sono stati di grande aiuto i volontari di Terra Madre. L’esercito, sempre più giovane, messo in campo dall’impeccabile Michele Calleri ha retto l’urto e rappresenta una delle note più liete di questa edizione.
Tanti giovani delle scuole di Torino, formati in seguito a percorsi educativi e di orientamento, hanno portato entusiasmo e sorrisi là dove ce ne era bisogno. Hanno scortato delegati, informato il pubblico, risolto problemi di lingua, presentato campagne ed attività.
La parte educativa e quella di confronto tra le persone hanno avuto un peso rilevante. Giusta la scelta di assegnare lo spazio centrale e coperto alla presentazione delle principali iniziative culturali e solidali di Slow Food. Encomiabile l’apporto di SFYN e dei giovani dell’UNISG.
Anche qui qualche critica va fatta. Negli ultimi anni Slow Food ha spinto parecchio sulla nascita delle comunità, svincolate dalle tessere e dalle condotte. Ecco, quelle comunità non le ho percepite. Non c’era uno spazio a loro destinato per confrontarsi e presentarsi e se c’era era troppo nascosto dietro a conferenze preconfezionate e comunicazioni lacunose.
L’anima di Terra Madre non è emersa come di consueto, schiacciata tra presìdi del gusto e delegazioni internazionali di Slow Food. Troppo pochi gli stand, scarsamente visibili i 3 mila delegati, spesso inglobati nella massa informe di un pubblico alla ricerca disperata di assaggi gratuiti e offerte da non perdere.
La mensa dei delegati e dei volontari pareva un baraccone stile Oktoberfest. Nella giornata di sabato era impraticabile, tra freddo e pioggia. È uno spazio che va assolutamente ripensato.
Già, il tempo atmosferico. Era utopistico attendersi la botta di fondoschiena del 2016, quando Torino fu baciata da cinque giornate di bel tempo e clima mite. Eppure già allora la mensa era al chiuso di Torino Esposizioni, i laboratori del Gusto e le conferenze di Terra Madre inserite nel contesto universitario del Castello e dei padiglioni fieristici.
La pioggia di sabato ha messo in crisi l’intera struttura di Parco Dora, con ampie zone ridotte allo stato paludoso, locali colpiti dallo stravento, persone ammassate nelle zone sotto copertura. Sono elementi sui quali lavorare per migliorare le condizioni della prossima edizione.
I cinque giorni di Terra Madre Salone del Gusto hanno confermato la validità delle proposte condotte dalle diverse regioni, la qualità delle merci esposte e vendute dai produttori, il ruolo propositivo dei presìdi del gusto.
In tono minore i laboratori del gusto, marchio di fabbrica della rassegna. Pochi, in numero sempre ridotto nel corso degli anni, meno convincenti del consueto. Stesso discorso per le cene fuori dal Salone e per il vino, presente quasi esclusivamente nella sezione Enoteca e in qualche sporadico laboratorio.
È il vecchio Salone del Gusto che se ne va.
Va assolutamente rivista la collocazione delle cucine di strada. Posizionarle nel passaggio obbligato della principale entrata e uscita della manifestazione significa targare l’evento in modo ben diverso dal concetto di rigenerazione di cui si è tanto parlato.
Sono spazi a pagamento, portano puzza di fritto stagnante e assembramenti allucinanti. Slow Food non è questo, non va confuso con questo. Comprendo che si tratti di un genere molto amato dal grande pubblico e dai giovani in particolare. Immagino anche che portino numeri e circolazione di denaro per tutti.
Davanti a quell’ingresso avrei voluto vedere i contadini, i pescatori, gli agricoltori, gli allevatori di Terra Madre che ho faticato a trovare. Quelli che vorrei tornare ad incontrare, insieme alle comunità, nel 2024.
Con tutto l’amore che ho per le persone e il mondo di Slow Food.
Fabrizio Bellone
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