Vent’anni senza Pantani, tra idee vecchie e idee nuove


Un animo fragile; un predestinato alla cocaina; un uomo caro agli dèi, e pertanto – secondo il canone dei classici – morto giovane. Tutto si è detto e tutto si può dire a proposito della morte e del mito di Marco Pantani. Ma di certo, rispetto a quando scrivevamo dieci anni fa nel decimo anniversario della morte, il giudizio biografico si è disteso e si è articolato. Nel 2014, era passato ancora troppo tempo rispetto a una tragedia umana e sportiva che aveva scosso profondamente l’opinione pubblica italiana. “E’ morto solo”, commentò Diego Armando Maradona subito dopo la morte del Pirata, quando erano passati quattro anni e mezzo dal giorno in cui Marco Pantani aveva iniziato, lentamente ma inesorabilmente a morire.

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Talento cristallino, romagnolo doc classe 1970, Pantani aveva cominciato a rivelare le proprie doti di scalatore puro aggredendo le colline che sovrastano la Riviera più famosa del mondo, sulla quale sua mamma Tonina vendeva piadine in un chiosco che, anni dopo, sarebbe diventato il primo vero fan club del Pirata. La cui carriera aveva rischiato di essere stroncata già nel 1995, quando Pantani non aveva ancora vinto nulla da importante ma era chiaro a tutti che ciò sarebbe avvenuto presto. Durante la Milano-Torino, un’auto era sbucata da una stradina laterale, non sbarrata a regola d’arte, durante il passaggio delle biciclette. Impatto rovinoso, volo spettacolare ma per fortuna nessuna conseguenza seria. Anzi, il vero e proprio lancio di un missile ciclistico e mediatico che nel giro di tre anni avrebbe realizzato la sua impresa più bella.

L’accoppiata Giro-Tour (tale si definisce la vittoria in entrambe le corse ottenuta – si badi bene – nel medesimo anno solare) è impresa difficile da spiegare ai non appassionati di ciclismo. Ai calciofili si potrebbe parlare di Triplete; a chi segue il tennis, di Grande Slam. Tuttavia – senza mancare di rispetto a Rod Laver, a Steffi Graf, all’Inter o al Manchester City – si dovrà sottolineare una differenza essenziale. In questo caso – è vero – si tratta di vincere “solo” due prove anziché tre o addirittura quattro; ma, per farlo, bisogna pedalare con le proprie gambe per quasi settemila chilometri prevalendo giorno per giorno, goccia per goccia di sudore, sui migliori del mondo. L’accoppiata Giro-Tour è stata realizzata dodici volte, ma vi sono riusciti solo sette ciclisti, la cui elencazione fa tremare vene, polsi e soprattutto gambe: tre volte vi è riuscito Eddy Merckx; due volte ciascuno Bernard Hinault, Fausto Coppi e Miguel Indurain; una volta ciascuno Jacques Anquetil, Stephen Roche e – per l’appunto – Marco Pantani.

In quel 1998, dopo aver trionfato sul traguardo di Milano prevalendo in un testa a testa con Pavel Tonkov durato l’intera corsa, Pantani si presentò alla partenza del Tour con la tutt’altro che scontata aura che illumina uno dei favoriti. Tutt’altro che scontata perché – merita ricordarlo – una vittoria italiana al Tour è fatto assai raro. Se è vero – come è visto – solo Coppi e Pantani hanno messo a segno l’accoppiata sul giro, è anche vero che solo in altre otto occasioni un azzurro ha messo le mani sulla Grande Boucle: Fausto Coppi in un’altra occasione, Ottavio Bottecchia e Gino Bartali due volte ciascuno, indi Felice Gimondi e Vincenzo Nibali.

Va onestamente detto che, in quegli ultimi anni dello scorso millennio, il ciclismo era scosso dalla battaglia della Federazione internazionale contro il doping, e in particolare contro l’uso dell’eritropoietina come equivalente farmacologico delle autoemotrasfusioni: in altre parole, si combatteva l’induzione di un aumento anomalo della fase corpuscolata del sangue (tecnicamente, dell’ematocrito): aumento che migliora le prestazioni negli sport di fatica ma rende il sangue pericolosamente viscoso, con conseguente rischio di ictus e infarti. Una battaglia che si combatteva tra Federazione e squadre a suon di controlli, squalifiche e boicottaggi, che tolsero a Pantani una porzione della concorrenza per il trionfo sugli Champs Élysées. Il quale giunse comunque meritatissimo, segnando l’apice della carriera del Pirata – come tutti ormai lo chiamavano – e di un mito ciclistico di massa che mancava dai tempi gloriosi di Coppi e di Bartali.

Se Pantani facesse già uso di cocaina in quel periodo, non è dato saperlo. Né – onestamente – siamo in grado di affermare se i controlli federali di cui già abbiamo parlato sarebbero stati in grado di rivelarlo (questione che si era posta anni prima, in maniera quasi analoga, a proposito di Diego Armando Maradona). Ci permettiamo di sostenere che un uso intenso di cocaina sarebbe stato incompatibile – dal punto di vista non tanto fisiologico, quando psicologico – con l’applicazione che portò Pantani prossimo alla vittoria nella successiva edizione del Giro. Poi, la tragedia.

In quel fatale 1999, il Pirata aveva già timbrato in maniera indelebile la tappa di Oropa. Dopo essersi ripreso il giorno prima la maglia rosa da Laurent Jalabert sul traguardo di Borgo San Dalmazzo, Pantani accusò la caduta della catena. Dopo essersela rimessa a posto da sé, recuperò il tempo perduto con uno spaventoso sprint in salita passato per sempre alla storia, conquistando la tappa e allungando di un minuto in classifica generale su Paolo Savoldelli a sette tappe dalla fine nonché sulla soglia delle Dolomiti, teatro naturale delle sue doti di scalatore puro. In altre parole, mettendo pressoché in ghiaccio il proprio trionfo finale.

Ciò che accadde a Madonna di Campiglio tra il 4 e il 5 giugno 1999 è stato raccontato mille e mille volte, anche mediante suggestivi artifizi narrativi. Nel docufilm “Il caso Pantani”, un presunto esponente della camorra si rivolge al pubblico come in una commedia di Plauto e racconta il trucco che la criminalità organizzata – secondo una delle molte ipotesi – avrebbe utilizzato per alterare il contenuto della provetta di Pantani, facendo sì che il famigerato ematrocrito risultasse leggermente superiore alla soglia massima consentita. Così leggermente, che la Federazione decretò una mera sospensione “cautelativa” (priva dunque di qualsivoglia significato sanzionatorio) di soli quindici giorni, che avrebbe – sì – sfilato il Giro dalle mani di Pantani ma gli avrebbe consentito di difendere la vittoria al Tour dell’anno precedente.

Cocaina…? Animo fragile…? Non sta certo a noi azzeccare il fattore esorbitante che moltiplicò a dismisura una simile vicenda, trasformandola nella distruzione di un uomo: caso antitetico rispetto alle “facce di latta” esibite da Lance Armstrong o Alberto Contador in circostanze analoghe. A Madonna di Campiglio – mentre Savoldelli per solidarietà rifiutava di indossare la maglia rosa – Pantani spaccò un vetro con un pugno, poi proruppe in una spaventosa autoprofezia: “Sono caduto tante volte, ma stavolta non mi rialzo più”. Indi scivolò in una profonda depressione, da cui faticosamente riemerse e appena in tempo per omaggiare papa Wojtyła alla partenza del Giro 2000, scattato da Roma in occasione del Giubileo; per fungere da gregario di lusso a Stefano Garzelli, trionfatore di quell’edizione; per aggiudicarsi sul Courchevel la tappa considerata il suo canto del cigno. Di lì in poi, poche partecipazioni e tanti ritiri; tante sparizioni e sempre meno riapparizioni, tra viaggi a Cuba – su consiglio proprio di Maradona – per tentare invano di disintossicarsi e la sempre più palpabile schiavitù in favore degli spacciatori, fino al tragico epilogo di Rimini. Nel residence “Le Rose”, secondo i più, Pantani sarebbe stato rinchiuso per giorni e giorni prima di essere trovato morto. Secondo altri, sarebbe entrato e uscito da una porta posteriore per procurarsi la polvere bianca. Al suo funerale – noblesse oblige – misero sulla bara una sua foto in maglia gialla.

Roberto Codebò

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