
L’arresto di Matteo Messina Denaro ci è occasione per ritracciare in breve la storia della mafia. Una narrazione troppo spesso confinata alle singole vicende di cronaca nera o giudiziaria, il che – in assenza di una contestualizzazione generale – rende incomprensibili le singole vicende stesse.
Trent’anni e un giorno dopo l’arresto di Totò Riina, lo Stato celebra la ricorrenza e se stesso con l’arresto dell'”ultimo” superlatitante di Cosa Nostra, laddove l’aggettivo “ultimo” ha come sempre un valore estremamente relativo… Non vi è dubbio, tuttavia, che la fine della latitanza di U Siccu (Messina Denaro) – durata praticamente quanto i trent’anni trascorsi dalla cattura di U Curtu (Riina) – marchi un periodo storico assai diverso rispetto a quei primi anni Novanta. Oggi, la mafia è realtà tutt’affatto globale e dedita al commercio su scala mondiale di armi e droga, molto più lontana da certe spaccature interne e casomai intenta a contrattaccare la ‘ndrangheta calabrese dopo lo storico sorpasso – quanto a giro d’affari e peso politico globali – da parte della criminalità organizzata “Al di qua del Faro” (per usare l’antica terminologia borbonica). Al contrario, la mafia di trent’anni fa appariva intenta a ritrovare se stessa dopo la caduta del Muro; dopo la fine dello storico sodalizio con la DC siciliana (culminata, nel marzo 1992, con l’omicidio di Salvo Lima); dopo il primo grosso colpo assestatole dallo Stato con il maxiprocesso del 1986; e dopo l’ulteriore reazione dello Stato stesso a seguito dell’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, reazione che condusse proprio all’arresto di Riina.
Tutto era incominciato nella notte dei tempi, come dimostra del resto la possibile origine araba del termine “mafia” (tra le varie ipotesi in tal senso spicca la tesi che lo fa derivare da marfud, [مرفوض ] = “[il] rifiutato, da cui “mafiusu“). Di certo, di mafia si comincia a parlare in Sicilia nel 1863, non a caso tre anni dopo la Spedizione dei Mille. Già, perché i primi spazi per il teorema dello “Stato nello Stato” si aprono proprio con il collasso dello storico Regno borbonico, rispetto alla cui anima napoletana il caratteristico binomio isolano tra nobiltà e illegalità aveva peraltro già rappresentato un puntello alla sacra tesi dell’autonomia sicula. Una funzione che non poteva che essere consacrata – con l’Unità d’Italia – dal vorticoso spostamento del potere centralizzato da Napoli a Torino (nel 1861), da Torino a Firenze (nel 1866), da Firenze a Roma (nel 1870). Un potere centralizzato che del resto – tanto per scendere a patti con le istanze locali – mandava le proprie truppe a massacrare i rivoltosi locali prevalendo a fatica al termine di una lunga e sanguinosissima guerra civile (altro che “lotta al brigantaggio”, definizione soft asservita alle esigenze di pacificazione nazionale). In tale quadro, la mafia aveva ottimo gioco a incunearsi nel lungo e doloroso “buco” tra antico e nuovo potere, allungando le proprie grinfie sulla vera chiave del controllo del territorio siciliano, vale a dire l’acqua.
Come si conviene a un’isola delle sue dimensioni, la Sicilia non conosce infatti montagne lontane dal mare. Ne deriva che i suoi corsi d’acqua – Salso, Simeto, Imera, Belice e compagnia bella – superano a stento i centro chilometri di lunghezza. Il clima estivo torrido, da parte sua, non poteva che suggellare la rarità delle preziose risorse idriche, sulle quali Cosa Nostra seppe affermare il proprio dominio organizzando un efficiente sistema di siccità pubblica e rivendita – scusate il gioco di parole – di acqua dolce a prezzi molto salati. Tale meccanismo, tristemente perpetuatosi sino ai giorni nostri, fu quanto bastava per uno stato liberale ottocentesco e giolittiano che da parte sua non vedeva nella Sicilia un buon affare, preferendo acchiappare gli ultimi ideali treni per l’Africa per partecipare a pieno diritto al consesso delle Grandi Potenze, prima che esse si massacrassero tra di loro nella Prima Guerra Mondiale. Quest’ultima non poté che contribuire alla simpatia sicula per i poteri alternativi locali, ché il massiccio spargimento di sangue isolano in teatri di guerra ubicati 1500 km più a nord, per cause delle quali i siciliani non si sentivano assolutamente parte, accentuò inevitabilmente il senso di distanza dai palazzi romani. Poi, il fascismo.
Durante il Ventennio, la mafia si schierò compattamente con Mussolini. Le questioni ideologiche e di principio, come quasi sempre, erano purissimo accidente. La verità era che il Duce era il primo capo di un governo unitario interessato a realizzare ingenti opere pubbliche nell’isola, nella quale teneva d’altro canto a far regnare quell’ordine pubblico carissimo a ogni regime autoritario. Fu il vero battesimo di un fortunato sodalizio tra mafia e politica, senza però dimenticare quelle sacre istanze autonomistiche in nome delle quali, nel 1943, la mafia scaricò prontamente Mussolini e fornì agli americani il supporto logistico per lo sbarco in Sicilia, sperando – per il tramite dei propri parenti e colleghi d’Oltreoceano – che la Sicilia potesse entrare a far parte degli Stati Uniti d’America…
Ma la Bandiera a Stelle e Strisce non si arricchì mai, come tutti sanno, di una sicula stella (su questo fronte, i mammasantissima si dovettero accontentare della Pizza Connection di qualche decennio dopo). Con la benedizione degli americani salì però al potere la Democrazia Cristiana, e, con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, il notabilato siculo che si era appena opportunisticamente liberato del fascio littorio fu lesto a rimpiazzarlo, altrettanto opportunisticamente, con lo scudo crociato…
Il resto, naturalmente, è storia assai più recente. Il rinnovato sodalizio tra mafia e politica consentì a Cosa Nostra di arricchirsi acquisendo a condizioni a dir poco “favorevoli” gli appalti legati al miracolo economico italiano e siciliano, offrendo in cambio – per mezzo del caratteristico controllo sull’elettorato locale – quel solido baluardo anticomunista indispensabile negli anni della Guerra Fredda. Proprio la fine di quest’ultima rese la mafia meno utile allo Stato, il quale ben approfittò dei dissidi interni alle cosche scoppiati nella selvaggia guerra di mafia degli anni Ottanta. Già nel 1982, lo Stato aveva mosso i primi passi in senso non tradizionale nominando prefetto di Palermo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, segno di voler trattare la mafia come si era appena trattato il terrorismo; ma i relativi poteri speciali – “stranamente” – non giunsero prima della strage di via Carini. La quale però fu utile, se non altro, a fare introdurre in fretta e furia, dieci solo i giorni dopo l’assassinio, l’articolo 416-bis del Codice Penale, a punire in maniera qualificata l’associazione di tipo mafioso rispetto alla comune associazione per delinquere. Un passo avanti netto non già dal punto di vista sanzionatorio, ma proprio per l’inedita definizione giuridica dell’associazione mafiosa, fondata ora ufficialmente sulla particolare forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva.
Fu però soltanto dal 1984 che, grazie al pentimento di Tommaso Buscetta, i magistrati iniziarono a disegnare geografia, organigramma e regole di uno Stato nello Stato sino ad allora protetto – almeno a livello ufficiale – dalla sacra omertà. Nel 1986, mentre il già menzionato Maxiprocesso decapitava Cosa Nostra, veniva istituito il carcere duro ex art. 41-bis, il quale rese la detenzione dei boss mafiosi qualcosa di molto diverso dal vecchio “Grand Hotel Ucciardone” (come i mafiosi stessi chiamavano il carcere di Palermo), con catering dai migliori ristoranti della zona e feste di compleanno dei boss a base di caviale e champagne…
La mafia reagì – lo abbiamo già ricordato – prima uccidendo il primate della DC siciliana Salvo Lima (referente locale di Giulio Andreotti), poi massacrando Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e rispettivi agenti di scorta. Lo Stato reagì a sua volta, arrestando Totò Riina. Sono passati – come detto – altri trent’anni, nei quali la mafia s’è dovuta ritagliare un nuovo ruolo rimanendo al passo con la globalizzazione. Su questo punto, sappiamo già che i calabresi si sono dimostrati più imprenditori dei siciliani. Nell’uno e nell’altro caso, nemo propheta in patria.
Roberto Codebò
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