La Città Eterna era stata liberata giusto il giorno prima. Ma ciò, sul fronte italiano, non aveva rappresentato l’apice dello sforzo bellico: casomai, trattative con i tedeschi ormai debellati su quella linea per evitare combattimenti in Roma, e battibecchi interalleati su chi avrebbe avuto l’onore di sfilare tra ruderi e mausolei (tra i due grandi antagonisti, l’inglese Bernard Montgomery e l’americano Mark Clark, prevalse quest’ultimo). Ora – salvo ciò che, come vedremo, stava accadendo dall’altra parte del mondo – l’attenzione si concentrava sulla sponda inglese del Canale della Manica, dove un futuro Presidente degli Stati Uniti era alle prese con la più classica delle decisioni difficili.
Nel mese di giugno, le giornate dell’Emisfero Boreale sono più lunghe che mai; e tanto più si prolungano man mano che si sale di latitudine, sino al fenomeno estremo del sole di mezzanotte. Anche se ancora lontanissime dal Circolo Polare, le spiagge della Normandia mostrano già chiaramente questo fenomeno; ma anche così, per uno sbarco preceduto da navigazione notturna, non si può prescindere dalla luna piena. La quale si mostrava proprio a cavallo del 6 giugno; dopodiché, sarebbe stato necessario attendere altri ventotto giorni. Troppi, rispetto alle esigenze di vettovagliamento e disciplina legate a una così massiccia presenza di truppe acquartierate a ridosso delle Bianche Scogliere di Dover. Troppi, anche tenuto conto di condizioni del mare che si annunciavano tutt’altro che propizie, ma che – a quel punto – rappresentavano il male minore. Si doveva del resto tener conto che le ampie attività di disinformazione compiute per far credere ai tedeschi che si sarebbe sbarcato nel punto più stretto del Canale, vale a dire nella zona di Calais e Boulogne, rischiavano tanto più di essere sconfessate quanto più passavano i giorni. Così, il generale Dwight David Eisenhower detto Ike pronunciò soffertamente un let’s go che avrebbe cambiato la storia.
Ancora oggi, l’espressione “sbarco in Normandia” è sinonimo di qualcosa di logisticamente molto complicato. Come ad esempio scardinare un Vallo Atlantico che era stato organizzato dal feldmaresciallo Erwin Rommel in persona; sbarcare su coste così basse da presentare una linea di marea che oscilla nell’ordine dei chilometri, esponendo troppo presto gli attaccanti al munitissimo tiro difensivo in pieno campo aperto; conquistare le posizioni fortificate – su tutte, il celebre Hoc Point – attaccando dal basso verso l’alto, dopo essersi faticosamente portati “all’ombra” del tiro a medio raggio e aver prevalso in un furioso combattimento corpo a corpo; poter contare su un solo porto – Cherbourg, la cui conquista sarà infatti essenziale – che presenti acque abbastanza profonde da consentire lo sbarco di grandi unità. Senza qui poter descrivere nel dettaglio lo spaventoso dispiegamento di mezzi e materiali che rese possibile tutto ciò, ci limiteremo a parlare di quegli strani mezzi da sbarco caratterizzati dalla prua ribaltabile, che diveniva una rampa per la discesa rapida a terra di chi non era stato falciato dalle mitragliatrici nemiche. Gli americani li avevano soprannominati Amtrak, come la futura Trenitalia a stelle e strisce; per tutti noi, saranno di lì in poi i mezzi da sbarco per antonomasia, punta di diamante di uno schieramento che peraltro poteva contare anche su una massiccia componente aerea e aviolanciata. Dagli alianti che troppo spesso finirono fuori posizione incastrandosi nelle piattissime ma fitte boscaglie normanne, fino a tutti quei paracadutisti che ebbero il proprio eponimo in un certo John Steele, celebre per essere rimasto appeso al campanine di Sainte-Mère-Église…
Tutto ciò serve anche e soprattutto per spiegare che, come tutte le epopee che si rispettino, lo sbarco in Normandia fu tutt’altro che una passeggiata, Col senno del poi, il Terzo Reich di quella metà del 1944 viene dipinto come già in ginocchio; con gli occhi di allora, non era assolutamente vero. Ci vollero due mesi per conquistare i trecento chilometri scarsi che separano Omaha, Gold, Juno, Utah & Sword Beach da Parigi (e scatenare la preconfezionata retorica del generale De Gaulle…); e ci vollero altri otto mesi per arrivare a Berlino, passando attraverso la terrificante controffensiva delle Ardenne e il faticosissimo attraversamento di un Reno rimasto (quasi) senza ponti. Tuttavia, sempre col senno del poi, lo sbarco in Normandia resta una delle imprese più gloriose della storia militare, ideale per foraggiare – anche attraverso il fondamentale step cinematografico de Il giorno più lungo – il mito con il quale gli americani avrebbero stregato i loro nuovi alleati-sudditi dell’Europa Occidentale, esattamente come avrebbero fatto i sovietici con l’altra metà del Continente.
Mentre i combattimenti nell’entroterra normanno erano in pieno svolgimento, dall’altra parte del mondo gli americani sbarcavano anche a Saipan. La conseguente conquista dell’arcipelago delle Marianne sarà essenziale per la vittoria sul Giappone: proprio da lì partiranno i B-29 che martelleranno il Giappone ancora più pesantemente di quanto B-17 e Lancaster stavano facendo sulla Germania, con l’aggiunta stavolta del celebre e tragico epilogo nucleare. Dal punto di vista strettamente militare, le parallele vicende della Guerra in Europa e della Guerra del Pacifico restano il segno di un potenziale industriale, tecnico e logistico rimasto senza eguali sino ad oggi. Sotto altri punti di vista, ci si perderebbe nelle solite questioni sulla storia, che notoriamente è scritta dai vincitori; su una vittoria che non è di chi ha ragione, e su una ragione che è di chi vince. Questioni troppo complesse per queste pochissime righe; per gli appassionati di storia militare e di logistica, lo sbarco in Normandia resta il mito per antonomasia.
Roberto Codebò
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