Ottant’anni fa, la bomba atomica su Nagasaki


Il presente articolo è il seguito dell’articolo pubblicato il 6 agosto, dedicato all’ottantesimo anniversario della bomba atomica su Hiroshima (clicca qui).

Mentre nel cielo di Hiroshima si dissolve un “fungo” che resterà per sempre impresso nella storia, si attendono segnali dal governo giapponese. Abbiamo visto nella scorsa puntata che l’utilizzo dell’arma atomica è stato deciso dal presidente Truman sulla scorta della prospettazione di enormi perdite umane in caso di un’invasione “convenzionale” del Giappone. Se è vero – come abbiamo notato – che le relative cifre sono sicuramente pilotate a livello politico-militare, è però anche vero che da parte giapponese appare probabile una resistenza ancor più fanatica ed estrema di quella tedesca. Sarà del resto appena il caso di ricordare che il bushido, antico codice dei samurai, ruota attorno al dualismo “vincere o morire”; in nome di tale idea, moltissimi militari si suicidano piuttosto che essere fatti prigionieri. Non si tratta – è bene precisarlo – del fenomeno dei kamikaze: qui, il soldato sceglie di sacrificare la propria vita onde rendere più efficace un attacco al nemico; là, il suicidio mira invece ad evitare l’intollerabile disonore della sconfitta e della resa.

In un simile contesto non stupisce che, all’indomani della missione di Enola Gay, nessun segnale giunga da Tokyo nei tre giorni che gli americani si sono dati come termine prima di passare nuovamente all’azione. Trascorso tale termine, il 9 agosto da Tinian decolla un altro Boeing B29A, il Bockscar, al comando del maggiore Charles W. Sweeney. Tra i velivoli di scorta è presente anche Enola Gay, con un altro equipaggio rispetto alla fatidica missione di tre giorni prima. A bordo del Bockscar una bomba non all’uranio – come quella di Hiroshima – bensì al plutonio, così come quella esplosa in luglio ad Alamogordo. L’aspetto assai più tondeggiante dell’ordigno ha fruttato il soprannome di Fat boy (o Fat man) – in sintesi, «il ciccione» – in contrapposizione al Little Boy cantato da Sting.

Conditions normal, we are coming home“. Abbiamo volutamente concluso la scorsa puntata ricordando che la missione di Enola Gay su Hiroshima, militarmente parlando, fu la più normale che potesse esistere. Non altrettanto può dirsi per la missione del Bockscar, che è stata narrata dal suo copilota Fred J. Olivi nel libro “Nagasaki – per scelta o per forza”, il quale costringe il lettore a una faticosa scissione di punti di vista. Da un lato, un’azione militare straordinariamente distruttiva accompagnata da un’interminabile serie di dubbi etici circa l’opportunità di un simile gesto; dall’altro, un equipaggio di ragazzi che nella loro vita avrebbero preferito ovviamente far tutt’altro, e che si trovano a dover scegliere – come quasi sempre in guerra – tra la propria vita e la vita altrui.

A meglio comprendere tutto ciò, dobbiamo subito notare che l’obiettivo primario della missione del 9 agosto non è Nagasaki, bensì la città di Kokura. Un nome che non è passato tragicamente alla storia – pensate – solo grazie alle nubi che quel 9 agosto ne oscurano il cielo. Qualche volta, il destino di decine di migliaia di vite si gioca sul filo dei minuti; durante il volo verso Kokura, il Bockscar ha accumulato almeno mezz’ora di ritardo per problemi di coordinamento con gli altri aerei, e proprio in quel lasso di tempo il cielo si chiude sopra Kokura. L’aereo effettua ben tre passaggi sulla città, ma la visibilità non è sufficiente per sganciare. Poiché le possibilità di bombardamento “strumentale” sono ancora rudimentali, l’equipaggio chiude i portelli di lancio e fa rotta verso Nagasaki.

A questo punto, mentre la popolazione di Kokura ovviamente non sa ancora di essersi salvata per una manciata di minuti, cresce l’inquietudine a bordo del Bockscar. L’autonomia dell’aereo è infatti parametrata su un viaggio di andata con la bomba, e naturalmente un viaggio di ritorno senza di essa (che pesa ben 4,6 tonnellate). In altre parole, il Bockscar non può fare ritorno a Tinian senza sganciare, come invece sarebbe suggerito dal fatto che anche su Nagasaki la visibilità non sia sufficiente per un lancio – perdonate l’espressione – “a regola d’arte”. Lo sganciamento viene effettuato comunque, approfittando di un effimero squarcio nelle nuvole, al di fuori dalla traiettoria prevista. Il numero di vittime sarà infatti sensibilmente inferiore rispetto ad Hiroshima, visto che la bomba finisce per esplodere al di sopra di una zona collinosa che limita non poco gli effetti dell’onda d’urto. Anche in questo caso – pur se meno che a Kokura – un maltempo spesso assassino salva stavolta moltissime vite umane. Da parte sua, l’equipaggio del Bockscar si salva atterrando piuttosto fortunosamente a Iwo Jima, primo avamposto americano, dopo aver a lungo temuto di terminare la propria corsa in mezzo all’Oceano, se non direttamente in territorio nemico…

Neppure dopo la bomba su Nagasaki giungono dal Giappone immediati segnali di resa. Ma questa volta i vertici giapponesi optano per una decisione ormai indifferibile. Decisione che è resa nota al popolo nipponico nientemeno che dalla voce dell’imperatore Hirohito; che non era mai stata neppure udita dal popolo stesso, e che viene ora radiodiffusa in mezzo alle macerie delle città rase al suolo prima ancora della bomba atomica. Hirohito utilizza il raffinato gergo di corte, che molti giapponesi non comprendono a fondo; ma la tragica realtà è ormai sotto gli occhi di tutti. La capitolazione giapponese sarà firmata il 2 settembre 1945 a bordo della corazzata Missouri, alla fonda nella baia di Tokyo. Naturalmente, nessuno ancora sa come sarebbe andata senza le bombe di Hiroshima e di Nagasaki.

Roberto Codebò