Ottant’anni fa, via Rasella e le Fosse Ardeatine


Cadaveri di impiccati lasciati per giorni a penzolare da un albero con la scritta “Ecco il destino dei traditori”; prigionieri fatti sfilare per le vie della città prima di essere trucidati; barbare esecuzioni di massa sulla pubblica piazza. Queste le immagini più comunemente associate al concetto di rappresaglia, la quale, per sua natura, tende a essere platealmente intimidatoria. Tutto diverso, com’è noto, il caso dell’eccidio delle Fosse Ardeatine: rarissimo – se non unico – episodio di rappresaglia effettuata nella maniera più segreta possibile. Per capire le ragioni di una simile stranezza, è necessario fare un passo indietro sino ai fatti che furono presupposto alla rappresaglia in questione.

Via Rasella è una delle più caratteristiche vie del centro di Roma. Di media larghezza, e ancora oggi pavimentata con i famigerati “sampietrini” di porfido grezzi e alquanto sconnessi, sale verso la facciata monumentale di Palazzo Barberini terminando in un incrocio a T con Via delle Quattro Fontane. Qui, nel pomeriggio del 23 marzo 1944, transitava un plotone del SS-Polizeiregiment “Bozen” . Erano i mesi cruciali dell’occupazione nazista di Roma (iniziata con l’armistizio del 8 settembre 1943 e terminata con la liberazione alleata del 4 giugno 1944), e quelle ronde servivano per incutere un senso di terrore ai romani in nome del presunto ordine costituito. Improvvisamente, un ordigno collocato in un bidone dei rifiuti esplose; subito dopo, i partigiani ivi appostati lanciarono alcune granate. L’azione – gestita dai Gruppi di Azione Patriottica (GAP) facenti capo al Partito Comunista – provocò l’immediata morte di ventisette militari tedeschi (che tali in realtà non erano in tutto e per tutto, come tra poco vedremo), cui si aggiunsero entro il mattino seguente altre sei vittime, non sopravvissute alle ferite, portando il totale dei morti a trentatré.

Il progetto dell’azione di Via Rasella – come molto spesso – era stato oggetto di vivissimi contrasti all’interno della Resistenza romana. Al suo interno si contrapponevano al solito la componente cattolico-centrista e quella socialista, azionista, comunista nonché rivoluzionaria. Quest’ultima, favorevole ad azioni plateali e sanguinarie; l’altra, più incline alla linea morbida. Ma contrasti non erano mancati neppure all’interno della componente comunista, e – fatto raro – pesava anche un problema di carattere quasi fratricida. Si trattava infatti di uccidere militari – sì – di lingua e di nome tedeschi, ma che in realtà erano tutti provenienti dall’Alto Adige (è appena il caso di ricordare che Bozen – il nome dell’unità attaccata – è il nome tedesco di Bolzano). Annesso all’Italia nel 1920, per più di vent’anni il Südtirol aveva visto la propria autonomia linguistica intransigentemente repressa dal fascismo, a suon di scuole chiuse a forza e toponimi italiani inventati a tavolino da un gerarca toscano. Una volta istituita la Repubblica di Salò, la provincia di Bolzano aveva risfoderato di colpo tutta la propria germanità ottenendo di essere direttamente annessa al Terzo Reich (che, sin dall’Anschluß del 1938, comprendeva già l’Austria). In altre parole, i componenti di quel reggimento di SS erano ragazzi che parlavano correntemente l’italiano e che sino a pochi mesi prima avrebbero potuto gareggiare alle Olimpiadi per i colori azzurri con nomi italianizzati d’imperio, cosa che a qualcuno dava l’impressione – per l’appunto – di un attentato fratricida.

In un simile scenario, e con simili presupposti, la notizia dell’attentato sconvolse Roma, i romani, molti partigiani, gli occupanti tedeschi nonché – soprattutto – Adolf Hitler in persona. Il quale andò su tutte le furie e ordinò personalmente una rappresaglia esemplare nella proporzione di dieci italiani per ogni militare ucciso. Non si trattava tecnicamente di crimine di guerra, ché la rappresaglia “dieci a uno” era (ed è) prassi legittima secondo il diritto internazionale di guerra; ma si trattava di uccidere ben 330 persone in un momento in cui ciò appariva ai tedeschi quantomai inopportuno. Le truppe alleate, sbarcate in Sicilia, poi a Salerno ed infine – nel gennaio 1944 – ad Anzio e Nettuno, erano ormai infatti a poche decine di chilometri dalla Capitale, e non piaceva ai vertici tedeschi l’idea di essere presi prigionieri con un simile massacro nel curriculum. Sull’altro piatto della bilancia, l’insostenibile ipotesi di contravvenire a un ordine personalmente impartito dal Führer. Di qui, il bizzarro compromesso della rappresaglia segreta…

Le Fosse Ardeatine erano una cava abbandonata di pozzolana a poca distanza dalla via omonima, dietro la Cristoforo Colombo. Antiche attività estrattive facilitate dalla natura estremamente friabile dei terreni di quella zona, non dissimili dai celebri “sassi” di Matera e dunque molto facili da scavare con mezzi rudimentali (non a caso, lì vicino sorgono le famose Catacombe di San Callisto). Su un simile luogo si posarono gli occhi delle autorità tedesche, alla disperata ricerca di un luogo fuori mano – a quel tempo, l’abitato di Roma non giungeva fin là – che rendesse possibile uccidere una simile quantità di persone occultandone immediatamente i cadaveri, facendo collassare le grotte. Le 330 vittime furono scelte da Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, compilando una lista che venne corretta e ricorretta mille volte per cercare di conciliar l’inconciliabile, pescando tra i prigionieri delle carceri di via Tasso ma anche tra i detenuti comuni, secondo un rituale ricostruito nel film “La Rappresaglia” con Richard Burton nel ruolo di Kappler e un insolitamente tragico Renzo Montagnani nel ruolo del famigerato questore Pietro Caruso. Indi, i designati furono condotti alle Fosse, messi in righe di cinque e fucilati dentro la cava con un colpo alla nuca, fin quando le SS scelte per la barbara esecuzione dovettero stare in piedi sui precedenti cadaveri, perché non c’era più posto, e qualcuno di loro sembrò uscire di senno per ciò che stava facendo (criminale è chi ordina una simile azione; chi è obbligato a eseguirla, fatte le debite proporzioni è vittima a sua volta). 

Per la fretta, o forse per eliminare qualche scomodo testimone, gli uccisi furono non 330, bensì 335. Soltanto per questo – per strano che sembri – l’eccidio poté essere perseguito come un crimine di guerra: fino a dieci volte tanto le vittime di Via Rasella, come visto, il diritto internazionale lo permetteva e ancora lo permette. Nel frattempo, gli organi di informazione – rigidamente controllati dal Regime sino alla sua caduta – si adeguavano alle insolite esigenze di segretezza. Abituati a strombazzare ben più tenui rappresaglie con titoli a nove colonne, stavolta dovettero accontentarsi di uno scarno comunicato dell’Agenzia Stefani (futura ANSA) che non a caso venne fatto pubblicare a cose fatte, tanto da terminare con le celebri parole “Quest’ordine è già stato eseguito”. Nel frattempo, quelle antiche cave di pozzolana vennero fatte brillare con l’esplosivo, nascondendo temporaneamente quella spaventosa montagna di cadaveri, che sarà però scoperta solo poche ore dopo da chi aveva notato quello strano andirivieni di automezzi, e udito il rumore degli spari. Meno di tre mesi dopo, Roma venne liberata. Il questore Caruso sarà fucilato; Kappler sarà invece condannato solo a pene detentive, e nel 1977…. “lasciato fuggire” in Germania. Come lui, molti altri tedeschi avevano cercato di nascondere l’eccidio per paura degli Americani; come lui, molti altri saranno graziati dalle nuove logiche della Guerra Fredda.

Roberto Codebò

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